Numerosi studi e articoli ci dicono che, nei giovani occidentali, la
soglia d'attenzione è molto bassa. E, così, delle corse in macchina
che durano 6 ore (o 24, come a Le Mans), non potrebbero interessare
la "Generazione Z". Abbiamo una figlia di quell'età e, in
effetti, la vediamo disinteressata da tutto ciò che è legato ai
motori anche se, va detto, quando ci ha accompagnato a Monza, qualche
anno fa, proprio a vedere una sessione di prove libere della 6h WEC,
ci è apparsa quanto meno incuriosita. La passione, ovviamente, è
un'altra cosa; tuttavia, neppure sua madre, che è della nostra
generazione, guarda le corse in televisione anche se, da giovane,
qualche fine settimana a Monza, per il Gran Premio a settembre, lo ha
trascorso. La premessa era doverosa perché, nel celebrare la
vittoria, al termine dell'ultima gara in Bahrain, dopo 53 anni, della
Ferrari in quello che nostro padre ci aveva insegnato a chiamare
"Mondiale Marche" per distinguerlo dalla Formula 1,
dove invece correva il nostro idolo d'infanzia Clay Regazzoni (il
quale, va detto per i più giovani, qualche gara con macchine dalle
ruote coperte l'aveva fatta, vincendone più di una), ci ha lasciato
perplessi (e dispiaciuti) il bassissimo clamore mediatico per
un'affermazione che, invece, nel secolo scorso avrebbe avuto una eco
paragonabile a quelle che arrivavano nella Formula regina.
Questa, a dispetto del disinteresse del mainstream, è invece una
vittoria di spessore e da celebrare, ottenuta in un campionato
estremamente complesso dal punto di vista tecnologico (BoP, auto
ibride, durata, avvicendamento dei piloti in gara, rifornimenti e chi
più ne ha più ne metta), da piloti completi, anche se magari
sfortunati quando si sono affacciati in Formula 1 (il nostro
Sébastien Buemi, per esempio, che con la Toyota ha ottenuto, negli
anni scorsi, vittorie di tutto rispetto). Alessandro Pier
Guidi, James Calado e Antonio Giovinazzi hanno così ottenuto quel
mondiale che, 53 anni fa, venne vinto da Jacky Ickx, Mario Andretti,
Ronnie Peterson, Arturo Merzario, Tim Schenken, Brian Redman, Sandro
Munari e, ovviamente, Clay Regazzoni. Premessa: nel secolo scorso, a
differenza di oggi, il titolo piloti non c'era, e quindi quello del
ticinese, assieme ai compagni d'avventura, resta una vittoria
virtuale, ottenuta con la Ferrari 312PB, della quale un modello fa
bella mostra di sé nella nostra vetrinetta di casa, al fianco di
tante altre monoposto condotte, in carriera, dal nostro portacolori.
Un mondiale dicevamo, ottenuto partendo pochi anni fa dallo schermo
bianco di un computer, misurandosi con scuderie del calibro di
Toyota, Porsche, Cadillac, BMW, Alpine, Peugeot e Aston Martin, con
giapponesi e germanici molto più avanti dal punto di vista
dell'esperienza e dell'engineering specifico. Entusiasta John
Elkann: "A emergere è stata soprattutto la forza di una
squadra che ha saputo lavorare come un corpo unico, affrontando le
tante difficoltà del campionato Endurance sempre con umiltà e
voglia di imparare e migliorare sempre”. Il resto si
chiama Antonello Coletta, coadiuvato da uno staff di
spessore, che va dal direttore tecnico, Ferdinando Cannizzo, alla
gestione precisa sulle piste del team AF Corse di Amato Ferrari. Ora,
finiti i festeggiamenti, non bisognerà però commettere l'errore di
trasportare a forza questi personaggi in Formula 1. Sono, infatti,
mondi differenti. Dopodiché, si tratta di uomini capaci anche di
accettare nuove sfide. Quindi, aspettiamo e vediamo: ma ora, per
favore, lasciateci chiudere gli occhi, pensando a nostro padre e a
Mauro Forghieri, di sicuro a festeggiare da qualche parte, con un
bicchiere di lambrusco, dopo aver fatto la punta a un salame di
quelli giusti. E chissà che non si sia unito anche Clay Regazzoni.
(foto S. P.)