Comunque vada, questa edizione della Champions League verrà ricordata per lungo tempo. La grande impresa dell'Inter ha infatti un po' oscurato il cammino del PSG, squadra poco amata dai puristi del calcio per lo strapotere economico della proprietà qatariota (i ricchi sono antipatici quando comprano altre squadre, ma diventano amatissimi quando si interessano alla nostra, ça va sans dire). Negli anni scorsi, i parigini venivano sempre messi tra i favoriti: rose da favola, allenatori top, ogni anno sembrava quello buono. Nella stagione 2019/20 i francesi ci andarono davvero vicino, cadendo all'ultimo step, nella finale di Lisbona contro il Bayern. Per molti, l'avverarsi di un karma negativo e la vendetta di Eupalla, la divinità del calcio che la narrazione vorrebbe dalla parte dell'estetica e contro chi pensa che il denaro si possa iscrivere sul tabellino alla voce "marcatori".
A questo giro, dopo l'addio di Kylian Mbappé, passato al Real Madrid proprio per poter alzare la Coppa dalle grandi orecchie, dopo i rovinosi fallimenti europei delle passate stagioni, la proprietà qatariota sembra aver cambiato politica. Intendiamoci: diversi top player vestono ancora la maglia rossoblù, ovviamente. Tuttavia, il club ospite del Parc des Princes, nelle vicinanze del Bois de Boulogne e del suo ippodromo, in un'atmosfera che ci ha ricordato un po' quella dello stadio di San Siro, quando ci siamo andati, ha provato a seguire una strada differente. L'età media è la più bassa tra i top club partecipanti, addirittura (anche se di poco) di quella del Barcellona (23.8 anni, contro quella dei catalani ,che è di 25.7), mentre in panchina è arrivato Luis Enrique: buon allenatore, ma non un top come lo era, per esempio, Carlo Ancelotti (passato anche lui da qui, ma senza particolare successo) .
Poteva essere una stagione di transizione, l'ennesima anonima dal punto di vista europeo. Invece, il tecnico iberico, con trascorsi anche in Italia alla Roma, famoso per la sua cortesia e disponibilità (tanto da farlo passare per uomo senza particolare polso, nel suo periodo capitolino) oggi può vantare di avere raggiunto la seconda finale della storia del club. Un traguardo sicuramente prestigioso, raggiunto tra l'altro in una parte del tabellone che non aveva nulla da invidiare a quella percorsa dalla fantastica Inter di Simone Inzaghi: lo spagnolo, infatti, si è appeso alla cintura gli scalpi del favoritissimo Liverpool, che avrebbe poi vinto la Premier, della rivelazione Aston Villa e dei londinesi dell'Arsenal, battuti in due gare meno epiche di quelle che hanno visto contrapposte i lombardi e i catalani, ma dove i parigini hanno, tutto sommato, espresso un gioco migliore, sotto la guida del loro allenatore che ha così incartato il connazionale Arteta, in una competizione tattica tra spagnoli, i quali si contrappongono alla scuola tattica della vicina Penisola, autonominatasi la migliore del globo terraqueo (cit.).
Che dire? Che, in una gara di simpatia, Luis Enrique se la gioca sicuramente con Simone Inzaghi. Ovviamente, la retorica della stampa d'oltreconfine evocherà la lotta tra chi ha potuto investire, in questi anni, centinaia di milioni di euro, contrapposti a una dirigenza la quale, invece, attraverso un'intelligente strategia dei parametri zero e del risparmio, ha costruito comunque un progetto destinato a salire sul trono europeo, confermando il primo posto nel ranking europeo, già raggiunto. Una specie di preghiera a Eupalla, insomma. Noi non possiamo che applaudire questa impresa sportiva, che ha avuto il solo torto di passare sottotraccia per via di ciò che è successo nell'altra semifinale. Ce la fara? Crediamo di no: l'onda lunga della semifinale spingerà inesorabilmente l'Inter alla conquista di un trofeo che pochi avrebbero pensato di veder arrivare in viale della Liberazione, a Milano. Ma, dall'altra parte del Naviglio, sono in tanti, al contrario, a sperare di poter fare pace con Gigio Donnarumma. E poi c'è una tradizione: contrapposta in finale a squadre che non avevano mai vinto la competizione, l'Inter si è sempre dovuta arrendere (Celtic e Manchester City). Il numeroso popolo anti nerazzurro, in Italia e in Ticino, si potrà, insomma, aggrappare anche a questo: il calcio, in definitiva, è fatto di pure di certe cose. E, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle.
A questo giro, dopo l'addio di Kylian Mbappé, passato al Real Madrid proprio per poter alzare la Coppa dalle grandi orecchie, dopo i rovinosi fallimenti europei delle passate stagioni, la proprietà qatariota sembra aver cambiato politica. Intendiamoci: diversi top player vestono ancora la maglia rossoblù, ovviamente. Tuttavia, il club ospite del Parc des Princes, nelle vicinanze del Bois de Boulogne e del suo ippodromo, in un'atmosfera che ci ha ricordato un po' quella dello stadio di San Siro, quando ci siamo andati, ha provato a seguire una strada differente. L'età media è la più bassa tra i top club partecipanti, addirittura (anche se di poco) di quella del Barcellona (23.8 anni, contro quella dei catalani ,che è di 25.7), mentre in panchina è arrivato Luis Enrique: buon allenatore, ma non un top come lo era, per esempio, Carlo Ancelotti (passato anche lui da qui, ma senza particolare successo) .
Poteva essere una stagione di transizione, l'ennesima anonima dal punto di vista europeo. Invece, il tecnico iberico, con trascorsi anche in Italia alla Roma, famoso per la sua cortesia e disponibilità (tanto da farlo passare per uomo senza particolare polso, nel suo periodo capitolino) oggi può vantare di avere raggiunto la seconda finale della storia del club. Un traguardo sicuramente prestigioso, raggiunto tra l'altro in una parte del tabellone che non aveva nulla da invidiare a quella percorsa dalla fantastica Inter di Simone Inzaghi: lo spagnolo, infatti, si è appeso alla cintura gli scalpi del favoritissimo Liverpool, che avrebbe poi vinto la Premier, della rivelazione Aston Villa e dei londinesi dell'Arsenal, battuti in due gare meno epiche di quelle che hanno visto contrapposte i lombardi e i catalani, ma dove i parigini hanno, tutto sommato, espresso un gioco migliore, sotto la guida del loro allenatore che ha così incartato il connazionale Arteta, in una competizione tattica tra spagnoli, i quali si contrappongono alla scuola tattica della vicina Penisola, autonominatasi la migliore del globo terraqueo (cit.).
Che dire? Che, in una gara di simpatia, Luis Enrique se la gioca sicuramente con Simone Inzaghi. Ovviamente, la retorica della stampa d'oltreconfine evocherà la lotta tra chi ha potuto investire, in questi anni, centinaia di milioni di euro, contrapposti a una dirigenza la quale, invece, attraverso un'intelligente strategia dei parametri zero e del risparmio, ha costruito comunque un progetto destinato a salire sul trono europeo, confermando il primo posto nel ranking europeo, già raggiunto. Una specie di preghiera a Eupalla, insomma. Noi non possiamo che applaudire questa impresa sportiva, che ha avuto il solo torto di passare sottotraccia per via di ciò che è successo nell'altra semifinale. Ce la fara? Crediamo di no: l'onda lunga della semifinale spingerà inesorabilmente l'Inter alla conquista di un trofeo che pochi avrebbero pensato di veder arrivare in viale della Liberazione, a Milano. Ma, dall'altra parte del Naviglio, sono in tanti, al contrario, a sperare di poter fare pace con Gigio Donnarumma. E poi c'è una tradizione: contrapposta in finale a squadre che non avevano mai vinto la competizione, l'Inter si è sempre dovuta arrendere (Celtic e Manchester City). Il numeroso popolo anti nerazzurro, in Italia e in Ticino, si potrà, insomma, aggrappare anche a questo: il calcio, in definitiva, è fatto di pure di certe cose. E, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle.