“Sai qual è la differenza tra un
vincente e un perdente? Il risultato. No, rimontare in sella dopo aver preso un calcio nei
denti”. La definizione di cosa sia un vincente è racchiusa in
questo dialogo ripreso dal film “Le riserve”, in cui Gene
Hackman, allenatore di una squadra di football americano domanda a
Keanu Reeves di spiegargli cosa separa un vincente da un perdente. I risultati sono fondamentali nella
valutazione di ogni operato, ma tante volte si incorre nell’errore di soffermarsi solo
sull’analisi del risultato finale per descrivere e valutare il lavoro di qualcuno. Forse l’errore
sta nell’interpretazione dei dati. Simone Inzaghi lo sa. Il rischio che si cela dietro la finale
del 31 maggio, è quello che in caso di sconfitta, il tecnico piacentino possa essere ricordato da
molti, come uno degli allenatori più perdenti della storia del calcio. In questi quattro
anni, il bilancio dei trofei vinti dall’Inter sotto la sua gestione è inferiore rispetto a quelli
persi. Uno scudetto su quattro, due Coppe Italia, tre Supercoppe italiane e per il momento
due finali di Champions nell’arco degli ultimi tre anni. Questo breve riassunto cosa dice? Forse
nulla. La grandezza e la bravura di un allenatore non sono descritte solo dai
numeri e dai trofei portati in bacheca, ma da come quelle coppe sono state vinte o perse,
e dalle condizioni che hanno caratterizzato il percorso, che ha portato il gruppo al
trionfo e alla gloria eterna, oppure a soccombere in termini puramente sportivi. Quello
riscontrato in questi quattro anni, è che al netto degli errori e
delle responsabilità individuali attribuibili in capo ad Inzaghi,
lui con il resto del gruppo hanno intrapreso un percorso di grande
crescita, un percorso che ha riportato l’Inter a riacquisire fama,
credibilità ed un certo status non solo in territorio nazionale ma
soprattutto in ambito europeo. Oggi, dove la società è governata dal
concetto di immediatezza, e dove la pazienza e l’attesa sembrano essere delle virtù
smarrite, non si è più capaci di dare il giusto valore alle cose. Tra i tifosi e i media
serpeggia il pensiero che raggiungere due finali di Champions League nell’arco di soli
tre anni sia qualcosa di scontato, oppure che la sola finale non sia sinonimo di nulla. Il
mantra che aleggia tra tanti appassionati è che le finali vanno vinte punto, altrimenti è meglio
uscire subito dai giochi, per evitare l’amarezza cocente della sconfitta. Tante sono
state le cadute e le ferite che squadra e tifosi hanno dovuto subire
e superare in questi anni, sconfitte all’ultima giornata, amarezze
e rimpianti per le occasioni sciupate, tradimenti e promesse non
mantenute, ma altrettante sono state le gioie e le soddisfazioni che hanno caratterizzato il cammino
intrapreso, e le imprese che hanno tenuto viva la speranza, anche in momenti in cui tutto
pareva buio e perduto. In tempi in cui i risultati sembravano portare
a conclusioni opposte Inzaghi può sostenere: “dove alleno io
aumentano i ricavi e i trofei, e diminuiscono le perdite”. E la
società non può che essere soddisfatta. È specioso e non aderente
alla realtà decretare dall'esito della finale, se Inzaghi sia un
perdente o un vincente. È una narrazione poco convincente.
CALCIO ITALIANO

Dilemma Inzaghi, vincente o perdente?