Carlo Ancelotti è probabilmente il tecnico che ha vinto più
trofei al mondo: lo ha fatto nei campionati più blasonati, facendo spesso
l’unanimità, grazie a intelligenza, classe e competenza. Con il suo modo di fare
pacifico e mai sopra le righe, ha sempre avuto i giocatori dalla sua parte.
Nemmeno l’ombra di conflitti e polemiche, anche in spogliatoi che avrebbero
potuto essere esplosivi.
Quando lo si credeva finito, lui si reinventava sempre. L’ultima volta a Madrid, con la “camiseta” più pesante del mondo, quella del Real. Dove conta soltanto vincere, possibilmente giocando bene e mostrando un aplomb impeccabile. Cosa per lui, tra l’altro, molto naturale.
Il suo addio dalla Spagna, dopo un percorso esaltante e arrivato alla sua conclusione in maniera assolutamente naturale, è stato sottolineato dagli applausi e dalle lacrime di chi sa di essere stato testimone di qualcosa forse di irripetibile.
Non è fortuna, come ha detto qualcuno con una certa faciloneria: no, Carletto, come lo avevano ribattezzato anche a Madrid, è una calamita di ottimismo, è qualcuno che ti fa credere che tutto sia possibile. E spesso, trasforma i sogni in realtà.
Ha firmato in questi giorni per il Brasile, una nazionale che incarna la gioia calcistica per antonomasia, al di là dei cinque mondiali vinti. Un paese che ha sempre sfornato talenti, che ben amalgamati e con l’orgoglio di rappresentare il proprio popolo, si divertivano a vincere. È una cosa che non succede però dal lontano 2002.
Ancelotti è partito in questi giorni per l’America latina con una valigia leggera e una missione in testa: riportare il Brasile sul tetto del mondo. Visti gli ultimi risultati sarà dannatamente difficile, è vero, ma il tecnico italiano ci ha abituato ai miracoli. a sovvertire i pronostici e cambiare le carte in tavola.
Sotto sotto, tifiamo un po’ tutti per lui. Vederlo vincere su quella panchina, avrebbe qualcosa di epico.
Quando lo si credeva finito, lui si reinventava sempre. L’ultima volta a Madrid, con la “camiseta” più pesante del mondo, quella del Real. Dove conta soltanto vincere, possibilmente giocando bene e mostrando un aplomb impeccabile. Cosa per lui, tra l’altro, molto naturale.
Il suo addio dalla Spagna, dopo un percorso esaltante e arrivato alla sua conclusione in maniera assolutamente naturale, è stato sottolineato dagli applausi e dalle lacrime di chi sa di essere stato testimone di qualcosa forse di irripetibile.
Non è fortuna, come ha detto qualcuno con una certa faciloneria: no, Carletto, come lo avevano ribattezzato anche a Madrid, è una calamita di ottimismo, è qualcuno che ti fa credere che tutto sia possibile. E spesso, trasforma i sogni in realtà.
Ha firmato in questi giorni per il Brasile, una nazionale che incarna la gioia calcistica per antonomasia, al di là dei cinque mondiali vinti. Un paese che ha sempre sfornato talenti, che ben amalgamati e con l’orgoglio di rappresentare il proprio popolo, si divertivano a vincere. È una cosa che non succede però dal lontano 2002.
Ancelotti è partito in questi giorni per l’America latina con una valigia leggera e una missione in testa: riportare il Brasile sul tetto del mondo. Visti gli ultimi risultati sarà dannatamente difficile, è vero, ma il tecnico italiano ci ha abituato ai miracoli. a sovvertire i pronostici e cambiare le carte in tavola.
Sotto sotto, tifiamo un po’ tutti per lui. Vederlo vincere su quella panchina, avrebbe qualcosa di epico.