Una
mamma ha scritto a “Il Fatto Quotidiano”. Ha parlato della storia
di suo figlio e del calcio giovanile. È una lettera che dovrebbe
fare riflettere e che pubblichiamo integralmente.
SONO
LA MAMMA DI UN RAGAZZO che ama giocare a calcio. Ama correre, tirare
calci al pallone, ridere con i compagni, sbagliare un passaggio e
riprovarci. Non ha particolari doti atletiche, non è veloce, non è
preciso, non segna quasi mai. È, insomma, un “brocco”. Non è
disabile, non ha nessun “certificato” che lo renda destinatario
di un progetto d’inclusione. Semplicemente: non è bravo. Ma ama lo
sport. E, come tanti, non trova posto da nessuna parte. Perché anche
nelle società sportive non professionistiche, nelle squadre di
quartiere, nei campionati delle scuole calcio o delle associazioni
dilettantistiche, conta solo una cosa: vincere. E per vincere bisogna
selezionare. Lasciar fuori chi non “rende”. Anche se si hanno 12,
14 o 16 anni. Anche se si gioca per il trofeo del supermercato o per
la coppa della ferramenta o del piastrellista del quartiere. Nel
frattempo, a margine del campo, mio figlio (e tanti come lui) viene
messo in panchina o invitato “gentilmente” a cambiare sport.
Magari a fare nuoto, dove è solo e nessuno si accorge che arriva
sempre ultimo. Oppure, più spesso, a smettere del tutto. Ed è qui
che vorrei parlare dell’ipocrisia dell’inclusività. Viviamo in
un’epoca in cui – giustamente – si promuovono campagne per
l’inclusione delle persone con disabilità, delle minoranze
etniche, delle categorie fragili. Spot emozionanti, post commoventi,
progetti finanziati. Tutto bello. Tutto necessario. Ma… chi parla
dei ragazzi mediocri? Di quelli senza medaglie, senza disabilità,
senza talento? Di chi non ha un’etichetta da esibire, ma solo una
voglia autentica di appartenere? Lo sport – che dovrebbe insegnare
il rispetto, la collaborazione, il coraggio – è invece spesso la
prima palestra della selezione, della competizione sfrenata, del
culto della performance. A scuola come nella vita, chi non eccelle
viene escluso. E l’esclusione, subita giorno dopo giorno, trasforma
i ragazzi in adulti pieni di insicurezze, di frustrazioni, di
cicatrici invisibili. Non tutti diventeranno Messi, Sinner, Bebe Vìo
o Tamberi. Anzi, solo l’1% forse ci arriverà. Perché lo sport,
per tutti, dura una stagione della vita. Ma ciò che resta, alla
fine, è come lo si è vissuto: se come una corsa solitaria verso la
vittoria, o come una strada condivisa, piena di compagni e sorrisi. E
allora perché non cambiare prospettiva? Le società sportive
dovrebbero essere premiate non per quante coppe vincono o quanti
“numeri 1” sfornano, ma per quanti ragazzi fanno giocare, per
quanti sorrisi riescono a vedere sul volto dei propri iscritti, per
quanto entusiasmo riescono a coltivare, e per quanti non lasciano per
sempre lo sport. Dovrebbero essere misurati sull’impatto umano e
non solo sul punteggio. Perché fare sport è prima di tutto un
diritto alla salute, alla socialità, alla crescita. Ma con questa
impostazione ipercompetitiva, stiamo negando l’accesso a un numero
sempre più ampio di ragazzi, privandoli di un’esperienza
fondamentale per il loro benessere fisico e mentale. La ricaduta
sulla salute pubblica, nel medio e lungo termine, sarà enorme. È
ora di chiederci: davvero vogliamo sacrificare la salute e il
benessere di tanti ragazzi per un campionato di terza categoria? La
dignità, quella vera, non è dei vincenti. È di chiunque. Anche
della mediocrità. Anche di chi regala entusiasmo senza prestazioni
da fuoriclasse. Quei ragazzi meritano uno spazio. Non per carità.
Per giustizia. Perché la vita non è una gara. È un campo da gioco
dove tutti hanno diritto di scendere, anche solo per il gusto di
correre dietro a un pallone.